ELLIOT SMITH "Figure 8" - Dreamworks

Questo cantautore senza voglia d’esserlo si è affacciato alla ribalta in maniera molto tranquilla, con la sola voglia di scrivere e cantare canzoni, cosa peraltro naturale, ma che molti, vedi quelli nostrani che fanno pessimi comizi, oltre che inascoltabili canzoni, o pretendono l’appellativo di maestri, non hanno ancora ben chiara. Borges parlava dell’ironia di Dio, essendo lui cieco, ma anche direttore di una delle più grandi biblioteche del mondo e ciò ha sfiorato anche Smith, che con un nome ed un fare assai anonimo, è approdato ad una fama hollywoodiana partendo dal Nebraska (un paesone che dovrebbe dirvi qualcosa). Perché io? Si chiede Smith, ma Dio è ironico e ama la buona musica, anche se gradiva un’influenza meno beatlesiana (quei presuntuosi che dicevano di essere più popolari di lui…) nei brani. Qualcuno dice che c’è poco di nuovo, casomai sono gli stessi che si masturbano sulle inutili evoluzioni (ed involuzioni) dei M. Kuntz alle prese con un remake di marca Ranaldo/Moore, questa però non è ironia, ma di Dio ce n’è uno solo….
"da Jammai nr. 36/37 - 08-09-10-11-12/00"

RADIOHEAD "Kid A" - EMI

Lì per lì questo disco mi aveva fatto girare le palle. Ecco, avevo pensato, la solita menata del G.A.T.S. e cioè del Grande Artista Travolto dal Successo che deve far vedere di essere un genio e non un pupazzetto in mano alle case discografiche, pronto solo a sfornare hit-singles (come se fosse facile…). In più essendo io in possesso della copia in vinile, con la divisione fra side Alpha, Beta, Gamma e Delta (ispirati forse dalle Lancia di una ventina di anni fa…) non avendo fatto studi classici, non sapevo cosa ascoltare per primo. Mi è bastato voltare la copertina e controllare la scaletta e cercare di prestare più attenzione ai suoni. Piano piano l’imbarazzo iniziale per un lavoro a tratti ridicolo, scompare e se anche resta l’impressione di un’operazione più commerciale che artistica, anche se non votata alla pecunia, quanto all’immagine (per primavera si parla già del disco con “vere canzoni”….), la bizzarria si trasforma presto in magnetismo e la glacialità che avvolge sia il sound che il packaging, si scioglie a favore di una sensazione liquida di appagamento. Un lavoro che, meditando in chiave futura, incuriosisce; cosa succederà quando il “warpismo” incontrerà le chitarre smithsiane?
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QUEENS OF STONE AGE "Rated R" - Interscope

NASHVILLE PUSSY “High as hell” – TVT
SARTANA “Trade your pistol for a coffin” – People like you…
LARD “70 rock must die”

Ci risiamo a discutere di rochenroll quando siamo ormai vicini al suo cinquantesimo compleanno (ma da quando partiamo? da “Intorno all’orologio”, da Elvis, dai Fab Four, dagli Zep, dal punk, dai Nirvana o dalla nascita di emtivì?) e continuiamo a dividerci fra coloro che spedirebbero dallo psicoterapeuta i revivalisti e chi concepisce la musica solo in strofa e ritornello. Noi come tutti gli italiani, che urlano a destra e sinistra, ma nascono e muoiono democristiani, ci spostiamo al centro (ormai son tutti lì) e cerchiamo di cogliere le ragioni di entrambi. Così non possiamo non apprezzare, le capacità millimetriche di una band come i QOSA, che seppur spostandosi verso l’AOR (anche tutte ‘ste sigle riportano alla politica italiana…) mantiene il magnetismo della band da cui sono scaturiti e che ovviamente non stiamo a ripetervene il nome. Sull’altro versante troviamo il bluff clamoroso dei Nasville Pussy che solo perché mettono due baldracche in formazione vengono considerati alla stregua di chissà quali maledetti del r’n’r. Alito pesante che esce da bocche a cui non affiderei certo il mio uccello e tematiche da leghisti in acido celtico, per una musica che definire dozzinale è innanzitutto doveroso. Se vogliamo spassarcela allora prendiamo in considerazione piuttosto i Sartana, così incrementiamo il PIL visto che sono italici, anche se incidono per un’etichetta tedesca, ma soprattutto sono onesti (dote fondamentale per la roots music…) si divertono e ci divertono, anche perché pescano a piene mani dal letamaio della produzione western di serie C2 girone B e non si vergognano, ma soprattutto non cercano di ricamarci sopra chissà quale giustificazione culturale, bravi. Dulcis in fundo perché non farsi stritolare dal per niente tenero abbraccio di Jello Biafra, che oltre ad avvisarci in tempo dei pericoli di un’informazione drogata, ci mette anche in riga affinché non ci buttiamo nel marasma dell’ovvio. Una battaglia che conduce da sempre e noi siamo con lui… (leggersi il testo pleeese….)
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PITCHSHIFTER "Deviant" - Wea

Di tutta la nidiata tecno-metal o cyber-grunge (ci ho messo tutto così in qualcosa ci azzecco) i Pitchshifter sono quelli che hanno resistito meglio all’usura del tempo (che schifo sembra lo spot pubblicitario di un pneumatico). Senza arrivare alle vette inarrivabili degli Young Gods e senza sfiorare l’estremismo degli altrettanto inaccessibili Fear Factory, si son fatti le ossa presso la scuola “Mal di Orecchie” ed oggi approdano ad un sound che è diventato mainstream non per colpa loro, ma nemmeno per merito loro. Sono dei pionieri, ma il capolavoro non l’hanno mai inciso e ciò vale anche per Deviant, anche se l’energia gira a mille.
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LIMP BIZKIT "The chocolate starfish..." - Interscope/Universal /// PAPA ROACH "Infest" - Dreamworks

I primi della classe e le matricole. I miliardari ed i mendicanti (si fa per dire visto che hanno un contratto con la Dreamworks…) uno di fronte all’altro, ma mi spiace dirlo non c’è partita. Non solo per i suoni, ma anche per le idee, “Chocolate…” fa sparire “Infest”. C’è chi si è lamentato perché i Limp Bizkit hanno proposto una formula troppo collaudata e di facile presa. Ora vorrei sapere cosa c’è di nuovo in ambito crossover da qualche anno a questa parte a partire dalla madre di tutti i “pacchi” ( e cioè i RATM)? I Bizkit propongono un disco veloce, suonato ed inciso straordinariamente bene, con tanto di soundtrack ruffiano di MI2 (che almeno cancella l’obbrobrio dei mezzi U2 di qualche anno fa). I Papa Roach invece esordiscono in maniera convincente, ma neppure loro dicono nulla di nuovo. Comunque se è solo l’adrenalina che cercate qui ne troverete a carrettate e poi meglio loro dei Backstreet Boys, di Paola e Chiara o dei Lunapop nelle orecchie dei teen-ager, ma a quel punto anche l'otite è meglio….
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DEFTONES "The white pony" - Maverick/WEA

“Al Cavallino Bianco” è un’operetta della Belle Epoque che non ha certo ispirato questo lavoro dei Deftones, ma certo c’entra quanto la presunta influenza dei Cure di cui non riconosco neppure un accordo. I Deftones sono una delle band più importanti degli ultimi anni e non ha certo bisogno di padri spirituali, ma se proprio si vuole fare un paragone si può passare eventualmente dai lidi dei My Bloody Valentine o i classici Soundgarden. Disco più lento del precedente, ma certo non meno duro, con chiaro il marchio della produzione di Terry Date, ha una marcia un più, proprio perché cerca di colpire al cuore per l’atmosfera e non alle gengive come i metallari crossoveristi retrogradi loro coevi. Certo un bell’aiuto lo da’ anche Keenan in “Passenger” (voilà che titolo!). Gran disco, non certo un’operetta….
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CYPRESS HILL "Skull and bones" - Columbia/Sony

Si è parlato spesso di “Judgement Day” colonna sonora di un film affatto imperdibile di qualche anno fa, dove fra l’altro il soundtrack si sentiva poco e niente. La cosa non ha sorpreso nessuno perché in effetti quella è una buona pietra di paragone per tutto quello che negli anni a seguire è stato definito crossover o, peggio, rap-metal. Quello che colpisce invece è l’enfasi che ha accolto questo “Teschi ed ossa” dove a parte alcuni brani di gran tiro, non si respira gran aria nuova. I C.H. dimostrano di avere buon gusto, ma non tutto quel coraggio che viene loro attribuito, visto che si tratta di cose già sentite varie volte e tra l’altro la separazione netta tra i generi in due dischi, voluta espressamente da loro, testimonia che la versatilità tanto sbandierata potrebbe essere solo una posa e non vera voglia di sperimentare una contaminazione tra generi. In più la parte rap è decisamente pallosa e questo non è un bel segnale.
"da Jammai nr. 36/37"

COLDPLAY "Parachutes" - Parlophone/EMI /// MUSE "Showbiz" - Taste/PIAS

Due dischi che non si assomigliano affatto e che eppure hanno molto in comune. Innanzitutto sono entrambi dischi ruffiani, visto che puntano al cuore, passando da tutti quei trucchi di rimandi e richiami a cui non si può essere insensibili, a meno di non essere completamente intorpiditi dal “Grande Fratello” (a proposito nessuno ha notato la somiglianza fra Rocco ed il nostro vate Pennello?). Coldplay e Muse fanno due antologie della storia del rock britannico (ma non solo, visto che ci sono pure echi di Buckley, sia padre che figlio, tanto per non far torto a nessuno) che va dal pop degli anni sessanta, al glam, fino al meglio degli Oasis (perché, esiste un MEGLIO degli Oasis, quei grandissimi scassacazzo?), ma questo, chissà perché, non infastidisce, forse anche per le indubbie capacità delle due bands. Da segnalare anche un profilo più basso (per ora) tenuta dai gruppi, nonostante il successo e gli starnazzamenti di certa stampa (quella inglese) alla disperata ricerca di nuovi fenomeni.
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CALEXICO "Hot rail" - City Slang

E’ stato in assoluto il “disco dell’estate” ed è strano parlarne ora che stiamo già mettendo i regali sotto l’albero, ma ci è sembrato doveroso parlarne visto che dal nostro punto di vista “Hot Rail” non è stato considerato la gemma che effettivamente è. Non manca nulla a questo disco che una parola orribile vorrebbe a tratti etnico ed in altri momenti “di frontiera” (altra abusatissima definizione…). Appena uno sente odore di deserto, saltano fuori le congetture sulle allucinazioni, i funghi (non quelli per il risotto) e la borderline. Certo dal DNA mex-tex sfuggi se sei nato a Cavarzere, mentre per i Giant Sand è più difficile, ma anche questa storia della musica visionaria ha un po’ rotto i coglioni. Non per niente qui c’è una bella “Ballata di Cable Hogue” che porta dritti a Peckinpah, uno che il sangue nelle vene ce l’aveva sul serio, anche se il film di riferimento mi sembrava più giusto essere “Bring me the head of Alfredo Garcia”, disperato e romantico, proprio come “Hot Rail”. Se non ve ne siete accorti correte ai ripari.
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JEFF BUCKLEY "Mistery white boy" - Columbia

Inizia a sentirsi odore di speculazione intorno al nome del Buckley giovane (ma recentemente sugli scaffali avrete trovato anche un inutile omaggio al genio del padre). Certo non ha mai goduto di una popolarità interplanetaria, ma è sicuro che i suoi fans, me compreso, siano numerosi. Si parla sempre di atto d’amore, ma anche quello verso il Washington stampato su biglietti verdi lo è. Comunque alla fine si cede sempre alla ragione del cuore ed un live dell’ultimo dei geni-belli-e-dannati, ma soprattutto morti, non può non fare gola, anche se il freddo compact non restituisce sicuramente la magia che questo artista era in grado di sprigionare in concerto. Forse sarebbe stato meglio far uscire uno show intero. Sarà per la prossima volta…..
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A PERFECT CIRCLE "Mer de noms" - Virgin

Visto che i Tool fanno uscire i dischi in concomitanza con l’elezione del presidente USA, chissà quanto dovremo aspettare per vedere quello nuovo se aldilà dell’oceano si mettono a contare tutti i voti a mano. Keenan però i questo Cerchio Perfetto ci crede tantissimo al punto di definirli più grandi della sua band di origine, il che ovviamente è una stronzata. Tutto quello che di spontaneo e di magneticamente sotterraneo c’è nei Tool, qui viene riproposto, ma l’operazione sembra quasi studiata a tavolino. In pratica su “Mer de noms” (titolo del cazzo duemila!) c’è un’influenza più forte del rock anni settanta e nulla della new wave che su qualche testata è stata sbandierata. Ottimi musicisti è ovvio, buon lavoro, ma le vette raggiunte da “Anaema” sono un’altra cosa.
"da Jammai nr. 36/37 - 08-09-10-11-12/00"