SIOUXSIE "Mantaray" - Polydor/Universal

OK Susan Ballion ha cinquant’anni, è già stato detto. Nell’accozzaglia di banalità ci possiamo aggiungere: primo disco solista, ex regina del dark ed icona gotica. Perfetto, chiuso il passato, arriviamo al presente, quello di un’artista che dopo aver cantato una sofferenza reale ed intima sottoforma di glaciali nenie, si rimette in gioco con una serie di brani sorprendenti seppur legati a stilemi facilmente riconoscibili. Sono proprio queste fonti di ispirazione a colpire maggiormente. Ritmiche possenti e pianoforti da crooner, sventagliate orchestrali e preziosismi cibernetici, chitarre distorte e sassofoni incandescenti : tutto questo ed altro per supportare una voce algida che si staglia al di sopra di tutto e di tutto; proprio come ha sempre fatto Siouxsie stessa, in grado di tenere in soggezione qualsiasi pubblico con la sola forza dello sguardo e di cancellare la presenza di Robert Smith al suo fianco sul palco (e io c’ero, cari cercatori di emozioni…). Vai allora con un’altra banalità: disco della maturità; ma lei non è arrivata, tutt’altro. Anzi, sta per ripartire, con un fascino inattaccabile ed molto più bella della scontrosa ragazzina del “Bromley contingent”, portatrice di dolorose esperienze, ma sempre in grado di guardare avanti perché “If it doesn’t kill you….”
"dal Cacofonico nr. 47 del 12/07"

THE ROSENKRANZ - DANCE BIT, DANCE!

L’ultimo Meeting delle Etichette Indipendenti ha ufficialmente dichiarato la morte della discografia ufficiale in favore della circolazione di idee su rete e non su supporto fisico. E’ stato istituito un concorso dall’esplicativo nome di MEI Space che si è rivelato un successo immediato, con una risposta vastissima, giusto per comprendere quanto la “vita artistica” di una band o di un solista non sia più legata alla classica dicotomia dischi/concerti, ma passi per altri canali. A suffragare questa teoria è la notizia di questi giorni che The Niro, artista romano già segnalato su queste pagine, ha firmato un contratto con una major, dopo un veloce passa parola tra gli utenti di rete. Vincitori del concorso MEI Space sono risultati The Rosenkranz (www.myspace.com/martinovergnano) provenienti dalla provincia di Torino e questa volta sul giudizio finale non c’è nulla da eccepire. Del gruppo piemontese si apprezza l’ironia, che abbonda nella loro pagina, ma soprattutto nella costruzione dei brani che alternano ballate folk a momenti più legati alla musica indie. Anch’essi di recentissima formazione, sono arrivati presto a comporre canzoni basate su idee semplici, ma non banali, con quel gusto stralunato che ha fatto la fortuna di tanti da Barrett a Wyatt, fino arrivare ai Flaming Lips meno metallici; ascoltarli è non solo piacevole, ma anche sorprendente, soprattutto nell’uso del violino. Altro genere, ma non meno talento per i Dance Bit, Dance! (www.myspace.com/dancebitdance) da Treviso, più legati a stilemi new-wave, o meglio ai gruppi forse più vicini a loro anagraficamente che si sono ispirati al post-punk, come Smashing Pumpkins o NIN, anche se qui l’elettronica è meno incessante. Presentano anche tratti ipnotici che ricordano, spero non si offendano, i Pink Floyd della seconda metà degli anni settanta, in pratica prima dell’esplosione megalomane del “Muro”, forse per le parti ritmiche, o le tracce d’organo, che insieme agli splendidi e misurati interventi di chitarra (tuffarsi nel “maelstrom” di “Kingdom of Annie” per credere) formano un corpo musicale di tutto rispetto, pronti per un live che dubito possa deludere, ma anche per la pubblicazione su cd che mi auguro sia prossima.

RADIOHEAD "In rainbows" - Autoproduzione

Il rischio più grande è che la questione”tecnica” del self-made e della distribuzione tramite internet distragga dal valore di questa nuova opera dei Radiohead. Tra l’altro il superamento della casa discografica è già storia vecchia, i Public Enemy già da qualche anno si sono mossi, Prince ugualmente, distribuendo l’ultimo album allegato ad un quotidiano inglese ed anche il nostrano Lucio Dalla, dicendo che il cd è morto (i suoi di sicuro…), si prepara ad uno sbarco in rete. Sai le risate se fa proprio come i Radiohead che han detto: “fate voi il prezzo” con la gente che sentite le ultime canzoni del bolognese, gli scarica davanti a casa carriole di verdura andata a male. Distrarsi da questa musica è un delitto, perché quest’album, in un anno invero piuttosto generoso (basta pensare anche solo a National ed Arcade Fire) si staglia come creatura brillante, nuova e multiforme. Anni fa in un’altra recensione mi chiedevo cosa sarebbe successo quando il “warpismo” avrebbe incontrato le chitarre “smithsiane”; qui non c’è una vera e propria risposta, ma Yorke e compagni fan vedere di aver distillato il meglio delle “new sensations” degli ultimi anni, con arrangiamenti inauditi (proprio nel senso di mai sentito prima). Questo è frutto di un lavoro particolare, in casa propria, senza alcuna pressione scandalistica, dopo aver collaudato i brani anche dal vivo, un’opera lenta e tenace da cui tutti dovrebbero trarre esempio. Non so se tramite rete od aspettando Babbo Natale che ve lo metta sotto l’albero, ma procuratevi questo disco, ne vale veramente la pena.
"da Cacofonico nr. 46 - 11/07"

OKKERVIL RIVER “The stage names” – Jagjaguwar Rec.

Nel cercare qualcosa di nuovo ci imbattiamo in questi Okkervil River che in verità sono già al quarto album. Disco piacevole non c’è che dire, ma che non si vada più in là di una certa grazia compositiva è significativo. Qui siamo in un ambito softcore-rock dove la musica americana viene riproposta in una confezione ricca di arrangiamenti con un occhio alla tradizione che a tratti può far pensare ai Wilco ed in altri momenti tocca una sognante solennità propria degli Arcade Fire, tutti nomi onorabili, ma certo non indicano una strada originalissima. Non che un bel disco debba essere per forza nuovo, od addirittura urticante, ma qui non si va oltre una gradevolezza da buona cover band ed anche se la strada intrapresa dagli OR è più ariosa che in precedenza, viene voglia di recuperare i lavori precedenti della band. Non un passo indietro, ma nemmeno avanti; siamo fermi, come tutto del resto.
"da Cacofonico nr. 45 - 10/07"

BATTLES “Mirrored” - Warp /// YOUNG GODS “Super Ready/Fragmentè” - PIAS

Parliamo di questi dischi, anche se sono usciti da un po’ di tempo giusto per farci una domanda affatto semplice: qual’è il suono del nostro tempo? Molti indicheranno i Battles, anche solo per il fatto che ci troviamo di fronte ad un gruppo contemporaneo. In più questa evoluzione del cosiddetto “math-rock” è molto a la pàge, arriva tramite l’etichetta giusta ed è benedetta dalla madre di tutte le recenti avanguardie: la Knitting Factory. Quando però vai a sollevare il velo ecco che saltano fuori ex-Helmet, Tomahawk ed uno che di cognome, non a caso fa Braxton. Un suono nuovo quindi che ha radici lontane. Se poi prendiamo in considerazione l’ensemble svizzero andiamo ancora più indietro e se si può affermare che la loro classica ricetta industrial è un po’ datata, dobbiamo ricordarci che questi anni fa se la giocavano con i Ministry. Ascendenze nobili a parte, si torna alla domanda iniziale: qual è il suono del nostro tempo? Le geometrie, forse un po’ troppo studiate a tavolino, dei Battles dove vengono analizzate chirurgicamente le nevrosi vertiginosi del vivere contemporaneo o le deviazioni libidinose degli Young Gods, dove ci si immerge nella cupa tensione di un futuro sconosciuto? Solo dopo che molte lune saranno passate potremo avere una risposta. In questi mesi ad esempio mi sono riascoltato l’opera omnia di Frank Zappa e devo dire amaramente che poche cose han retto al tempo; gli YG sono già sulla strada del declino è vero, ma cosa ne sarà dei Battles, soprattutto se finiranno in un labirinto di fusion no-wave?
"da Cacofonico nr. 44 - 09/07"

Dischi per l’estate

Come orientarsi nel pieno della calura per avere ristoro musicale? Quale cd portarsi in vacanza anche se ormai ci sono rimasti solo i soldi per un weekend a casa di nostra zia? Ma soprattutto: dove trovare un cd un po’ fuori delle righe, per non morire di noia e di ottuso rincoglionimento radiofonico? Facciamo un po’ d’ordine: innanzitutto salutiamo il ritorno dei Buffalo Tom, una compagine che stranamente non ha conosciuto la notorietà sebbene la sua classe sia pari se non superiore ad altre band americane del periodo grunge molto più “spinte” dalla critica. Il loro “Three easy pieces” è un lavoro sorprendente per freschezza ed ispirazione, come se gli anni non fossero passati. A proposito di sopravvalutazione ecco gli Smashing Pumpkins anche loro sulla strada del ritorno. Corgan torna nel gruppo, ma in verità si tratta di un altro lavoro solista. Restando in America, ma cambiando genere e generazione, ecco gli Interpol gemelli new-wave degli Editors. Alcuni critici li hanno trattati con freddezza, ovviamente non credetegli, il disco è eccellente, solo che hanno sbagliato singolo, perché è “Rest my chemistry” ad essere esplosiva. Muovendosi verso Chicago troviamo gli Shellac di Steve Albini che godendo di una libertà e di una considerazione esagerata, spesso confondono la sperimentazione con il cazzeggio. Passando ai pesi massimi dei dance-floor ecco gli UNKLE alle prese con un lavoro profondamente virato al rock, pieno di brani intensi, ma come sempre con gruppi come questi il problema è reggere l’intera durata del cd. Se vogliamo possiamo confrontarlo con l’album uscito da qualche tempo dei Chemical Brothers non troppo riuscito, anche perché i nostri si perdono in divagazioni kraut, mentre funzionano soprattutto quando spingono fino in fondo il pedale del ritmo. Se proprio volete perdervi in stranezze e chincaglierie varie non mollate il nuovo degli Architecture in Helsinki, ma soprattutto ricordatevi di non uscire nelle ore più calde.
Buona estate a tutti.
"da Cacofonico nr.43 - 08/07"

EDITORS “An end as a start” – Kitchenware Record

Sono innovativi gli Editors? No Sono eccessivamente retorici? Sì. …e allora perché ascoltarli, perché addirittura considerarli fra i migliori gruppi del mondo? Questo disco risponde e spazza via ogni dubbio a riguardo: è un’epoca questa dove la retorica è la risposta giusta ai guasti della cosiddetta società. Finite le ideologie, risvegliati dai sogni di tutte le utopie sognabili, esclusi dalla tavola troppo piccola del benessere materiale ed avvelenati dai nuovi profeti assolutisti di tutte le religioni, non resta a tutti noi che aggredire la vita con il pathos di chi crede che ancora un bacio, uno sguardo, una parola, possa cambiarla. Per anni tutto ciò era stato accantonato, deriso, considerata spazzatura per perdenti, ma se la gente corre nelle braccia di gruppi come questo o degli Interpol, fino ai Coldplay (artisti piuttosto diversi fra loro in ogni caso…) evidentemente sente la necessità di appoggiare la testa su un cuscino e versare lacrime, per poi alzarsi, aprire la finestra e sorridere guardando il sole, alla faccia di tutti gli analisti finanziari, degli intossicati delle firme e dei coolness-addicted. Perché almeno una volta nella nostra vita siamo stati patetici come coloro che fumano fuori dalle porte degli ospedali, come cita la title-track. Ringraziamo la Kitchenware che ha scoperto gli Editors, così come più di vent’anni fa fece con gli immensi Prefab Sprout altra band da non dimenticare MAI. Dieci canzoni meravigliose da ascoltare stravolti dal sudore estivo.
"da Cacofonico nr. 42 - 07/07"

WEATHER REPORT “Live in Montreux” - DVD

Ecco questo dvd... ecchecazzo ce ne facciamo di un dvd? ...si lo so in questo spazio parliamo di novità; perfetto: c’è l’ultimo di Bjork, carino, poi i Neurosis, sempre micidiali, i NIN meno fumettosi del solito ma... scusatemi ancora, io sono stato rapito dalle immagini di questo disco-versatile. Per i più giovani: dovete sapere che tanti anni fa non esistevano i novecentonovantanove canali di “scai”, ma solo mammaRai ( e vai ancora con la rima: sono un poeta...) più Capodistria e la Tv della Svizzera Italiana. Ecco proprio su quest’ultima, l’unica che trasmettesse programmi musicali decenti, capitò di vedere l’esibizione dei WR in oggetto. Per certi versi fu una catastrofe perché molti musicisti appesero gli strumenti al chiodo, altri purtroppo pensarono di poterne emulare le gesta, producendo in seguito dell’orrida e finocchiesca fusion. Qui invece c’è proprio l’immaginazione al potere: la migliore formazione avuta dal miglior gruppo jazz-rock mai ascoltato. Uno straordinario concentrato già yes-global ancor prima che se ne accennasse, perché oltre ai due motori della band, già così antitetici, l’asburgico Zawinul e l’afroamericano Shorter, era presente la divinità Pastorius al basso ed alle percussioni i latinos Acuna e Badrena. Toglietevi dalla testa qualsiasi considerazione: non ce n’è per nessuno e tutt’oggi si resta senza fiato. Chiunque si sia cimentato su questo campo non ha mai raggiunto quest’equilibrio ed è incredibile sentire a distanza di anni una musica così ricca che sconvolge la mente e scalda il cuore.
"da Cacofonico nr. 41 - 06/07"

PATTI SMITH “Twelve” - Columbia

Questo disco volevano intitolarlo: “2007: Odissea nell’Ospizio” e ne avevano ben donde, visto i sessantanni di questa rochettara e le cover che si è andata a scegliere. Diciamo la verità: io sarò pure un signore di mezza età, ma ormai se le riviste specializzate dedicano più pagine alle ristampe che alle novità (notare la rima baciata...) e sempre più spesso ci troviamo a parlare di album di rifacimenti e non intesi come lifting. Qui si osa l’inosabile e più che da rompersi le palle c’è da farsi spezzare il cuore. Un album che contenga “Are you experienced?”, “Helpless” e “Gimme Shelter” fra le tante canzoni fa venire i brividi. Chi pensa però che la nonnina new-wave si sia fatta il suo geriatrico karaoke personale si sbaglia. Questo è un autentico atto di amore verso il rock fatto senza sbavature e la lacrima facile non scorre affatto, soprattutto per il coraggio mostrato (riproporre “White rabbit” non è per niente facile), l’intelligenza nello scegliere i brani, classici sì, ma non così inflazionati e la misura negli arrangiamenti che vedono una “Teen spirit” folkeggiante ed il brano di Stevie Wonder (ma i più ricorderanno il rap di Coolio) trasformato in un miracolo minimalista. Sarebbe da far studiare a scuola, se solo ce ne fosse una in giro, anche perché qui la cosa che emerge su tutte è la straordinaria voglia di divertimento. Non ci credete? Mettete su “Soul kitchen” e se siete capaci di stare fermi, complimenti: vuol dire che siete morti.
"da Cacofonico nr. 40 - 05/07"

TINARIWEN – Aman Iman: Water is life – Ponderosa/Independiente

Per questa volta ci accodiamo ai giornali “importanti” e parliamo di questo ensemble non più giovanissimo, ma importante nello scacchiere sonoro del nostro pianeta. Non sono mai stato molto sensibile alla causa della word-music, né mai ho ceduto al ricatto morale che, discendendo noi da colonizzatori, dobbiamo attenzione a musiche e tradizioni del terzo mondo. Prestando però attenzione alle novità ed a tutti gli incroci in cui i generi musicali si trovano ad attraversare, non potevo ignorare i Tinariwen. Qui di musica etnica per fortuna ce n’é poca, cioè c’è poco di quel genere intellettual-turistico che manda in brodo di giuggiole le professoresse di lettere progressiste e divorziate. Questo disco è il risultato di un’esperienza lunghissima ed il pur grande Khaled è lontano, perché il primo nome che viene in mente ascoltandolo è quello dei Velvet Underground, probabilmente la band più metropolitana della storia. Il suono scarno ed ipnotico affascina immediatamente e ci si trova velocemente all’interno di una psichedelia pulita, fatta di gente,storie e volti e non di sballi intellettuali e disarmonici. Oltretutto qui ci troviamo di fronte ad un suono che parte da una sensazione antica, qualcosa di puro proveniente da un mondo dove tutto deve ancora succedere. L'acqua è vita: semplice e fondamentale.
"da Cacofonico nr. 39 -04/07"

GIARDINI DI MIRO’ “Dividing opinions” - Homesleep

Abbiamo sempre tirato volentieri merda contro le band italiane, ma questa volta siamo contenti di segnalare un lavoro che veramente non ha nulla di italiano (inteso nel senso più deleterio/musicale del termine). I GDM con un nome così tragicamente brutto sono in giro da un pezzo, ma non avevano mai raggiunto le vette di “Dividing opinions”. Non c’è nulla che non funzioni in questo disco, dalle parti ritmiche a agli arpeggi chitarristici, fino agli interventi degli archi e da una serie di idee già usate da altri (ma in fondo, a parte Omero ed Eschilo chi non è derivativo?) approdano a soluzioni melodiche sorprendenti. Si possono avvicinare agli inarrivabili My Bloody Valentine, anche se non è presente la stessa confusione psichica a favori di sprazzi di romanticismo che a volte li fa transitare sulle strade dei God Machine. Sorprende che certa critica non si sia esaltata più di tanto per un disco che si può definire perfetto, mentre è capace di scaldarsi oltremisura per i “Fratellis”. Fossi in loro punterei soprattutto sull’estero, anche perché se questo è un periodo dove giganteggiare è facile, loro sarebbero stati bravi anche in momenti di maggiore fertilità del mondo musicale ed i GDM potrebbero essere tranquillamente in testa alle classifiche britanniche dove vanno spesso band inutili. Un’ultima considerazione sul magnifico packaging del cd, perché proprio in questo periodo di scontri e santificazione rapide, capire da quale fonte nasce il fiume dell’odio è importante; così i morti di Reggio Emilia restando per sempre impressi nella nostra memoria, non saranno stati ammazzati invano. Il massimo dei voti dunque per una band che se non si “suicida” ha davanti a sé un futuro veramente radioso.

"da Cacofonico nr. 38 - 03/07"

CARLA BRUNI “No promises” - Naive

Non credo che il “fenomeno” Carla Bruni sia stato valutato nella giusta dimensione. In un ambiente mediatico e culturale dove il nulla regna sovrano, far passare sotto silenzio una che fa parlare di sé sia sulle pagine di Vogue che su quelle di Rumore, può essere indice di snobismo elevato al cubo, oppure semplicemente invidia. Tutti erano lì per farsi due risate alle spalle della ricca top-model che imbraccia la chitarra, come era già successo con la sua collega Naomi (che detto fra noi ha inciso un disco assai più piacevole delle merdate di Anastacia) ma il risultato aveva stupito tutti (non me ovviamente...) Ora siamo al secondo album e Carlotta riesce già a spiazzare il pubblico passando dal francese all’inglese, in più, astutamente, non essendo una cantante in senso stretto, evita i vocalizzi inutili, per un tono sussurrato e usa come testi poesie di autori importanti, in questo ispirata da M. Faithfull (dico: mica la Tatangelo...). Tutto questo, associato ad una qualità musicale elevata, che unisce ballate folk a guizzi loureediani, da’ la sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro dal sapore antico, quando il pop ci prendeva per mano e ci accompagnava in case piene di stanze sconosciute, ma accoglienti, popolate da persone gentili ed indimenticabili. Ha già il suo stile Carlotta, come ai tempi in cui cavalcava le passerelle; ha già il suo marchio di fabbrica e, credetemi, non è poco. Il suo cosmopolitismo non è spocchia, l’equilibrio è l’elemento fondante del suo stile, perché l’armonia oggi è la vera trasgressione. Carla Bruni non si sente superiore, Carla Bruni è superiore.
"da Cacofonico nr. 37 - 02/07"

PERE UBU “Why I hate women” – Glitterhouse Records

Il titolo, molto “politicolli scorrect”, c’entra poco, o meglio è solo fumo negli occhi. La vera abrasione al sistema nervoso arriva dai suoni. Anni fa un geniale recensore, prendendo in prestito un tormentone pubblicitario disse: “Contro il logorio della vita moderna Cynar, a favore i Pere Ubu”. Oggi, che quasi tutto il mondo è una Akron intossicata, che i serial-killer si sono sparsi ovunque e che la sporcaguerra stile Vietnam non è più una prerogativa americana, abbiamo una se non mille ragioni in più per prestare attenzione al lavoro di David Thomas e soci. Certamente più sottili ed a tratti più lirici dei devastatori di tanti anni fa, con questo disco realizzano una capolavoro di concretezza e mentre i ventenni oggi esordiscono con saltarelli new-wave, infilando un singolo uguale all’altro, i nostri il post-punk se lo mettono alle spalle. I Pere Ubu, forti forse della loro formidabile carriera, inanellano una serie di brani sorprendenti, per un album completo, come si usava negli anni d’oro, nemmeno fossero dei Pink Floyd al tallio, anche se il nome che viene in mente molto spesso è quello dei coevi Tuxedomoon. Un ascolto che riconcilia con la musica rock, ma siamo sempre alle solite: per emozionarci dobbiamo andare a prendere i veterani.
"da Cacofonico nr. 36 -01/07"