JOHANN JOHANNSSON “Fordlândia” - 4AD

C’è una gran voglia di neoclassicismo in giro. Sarà per questo bizzarro periodo in cui la plastica ed il fast-food intellettuale imperano, ma pare che il “lungo respiro”, il movimento elegante, a volte sontuoso, facciano battere i cuori molto più del tunza-tunza delle radiucole che fanno da sottofondo alle nostre vite. Questo signore dal nome nordico è chiaramente un nordico, non nel senso che vorrebbe dare Bossi a questa parola, ma certo di latino qui non c’è proprio nulla. Si sprecano anzi gli aggettivi come algido e glaciale, ma solo per pigrizia, un po’ come accade per il “suono del deserto” con certo rock o la definizione “sanguigno” appiccicato sempre a soul e blues. Non manca certo il calore in questo lavoro, dove nel solco di certe fascinose colonne sonore di film immaginari, si inseriscono inserti elettronici affatto disturbanti. E’ musica europea questa; una musica cioè che partendo dalla lontana tradizione dei maestri, viene reinventata ai nostri tempi e fatta marciare al nostro passo. E’ probabile che questi temi li abbiate sentiti in altre composizioni, ma una volta iniziato l’ascolto sarà veramente difficile liberarsene, soprattutto in giornate in cui il paesaggio intorno a voi, tanto per tornare ai luoghi comuni, si farà invernale. Da abbinare all’ascolto dell’album della Gerrard con Klaus Schultze, ma ci potremmo aggiungere i Mammiffer.
(da Cacofonico nr. 59 del 12/08)

ORNELLA VANONI “Più di me” – Sony/Columbia

Non mi sono rimbambito tranquilli. Questa in verità è un’anti-recensione, cioè non è una stroncatura, ma una semplice dissertazione fatta dall’antropologo che è in me. Questo cd è senza senso alcuno, ma è rivolto ad un target di persone che continuano ad acquistarli. Ascoltandolo però si fa largo la strana sensazione che il nostro mondo non sia reale. In quello vero tutte le cantanti si chiamano “La” (La Vanoni, La Zanicchi, La Mina, La Milva etc.) i signori possiedono belle fabbriche e non sono avventurieri da quattro soldi con i capelli phonati, la tv inizia le trasmissioni alle cinque del pomeriggio e termina a mezzanotte, perché per il resto basta la vita vera. Ci sono ancora le classi sociali è vero, ma tutti sembrano più o meno felici della loro condizione e non hanno voglia di uccidersi tra loro per avere qualcosa in più. Nel mondo vero il giorno e la notte si susseguono e non si vive in un continuo pomeriggio isterico e chiassoso. Qui la parola d’ordine è: fascino. Ecco allora che il cd prende senso, perché vi racconta la vita come dovrebbe essere, ma attenzione la nostalgia non c’entra nulla. Suonato benissimo e arrangiato meravigliosamente, l’ascolto ci fa scoprire che i brani vecchi sono migliori di quelli nuovi e che i cantanti di una volta (compreso Dalla, mai così bravo da 20 anni a questa parte) sono più bravi dei giovani; tutti però se la cavano bene, pollice verso solo per l’Eros nazionale, ma lì il caso è veramente disperato. Se vi vergognate di farvi sentire dal vostro vicino punkabbestia, o di vostro fratello rapper, od anche di vostra madre che per stare al passo con i tempi si è appassionata alla niu-niu-niu-ueiv, andate a farvi un giro in auto, alzate il volume, cantate a squarciagola e vi sentirete meglio.
(da Cacofonico nr. 58 del 11/08)

CALEXICO “Carried to dust” - City Slang

Non credete a coloro che parlano di musica di frontiera. Tanto meno credete a quelli che parlano di imbastardimento pop. L’approccio alla musica dei Calexico non è morbido, bensì notturno ed ormai le frontiere non esistono più, se non nella mente di qualche primate della politica localistica che ancora oggi campeggia sulle pagine dei giornali, ma che la storia spazzerà via presto. La ditta Burns/Convertino nonostante tragga la sua linfa dai vari “folk” americani (siete ancora convinti che ce ne sia uno solo?) sono un ensemble straordinariamente cosmopolita, in grado quindi di comunicare le loro sensazioni ad un pubblico planetario. Dolcezza e rabbia, sì anche rabbia, perché non c’è bisogno di una montagna di distorsori per denunciare un omicidio politico come quello di Victor Jara, poi giorni e notti senza sonno, ma al riparo da ogni affanno, perché questa è musica che protegge, perché fa bene all’animo. In giro ci sono tensione “r.e.m.iane”, trombe messicane e sussurri di slide-guitar, ma è tutta illusione, il nucleo dei Calexico è il cuore e quello non ha nazionalità.
(da Cacofonico nr. 57 del 10/08)

Alla ricerca del silenzio perduto – Il treno di John Cage – Baskerville Edizioni

Questo non è un semplice libro+cd+dvd, ma è il racconto di un’esperienza unica, anzi è la narrazione di un mondo. Nel 1978 (e il vostro c’era…) John Cage sulle tratte Bologna – Porretta e Bologna – Ravenna, ospita a bordo di un treno macchinari per riproduzione di suoni e tanta gente che improvvisa performances di ogni genere. Questo è lo scopo di Cage un genio che forse non capta i suoni di quel secolo (a ciò probabilmente è più adatto Stockhausen) ma cerca di dare all’umanità una via di fuga. E’ pazzesco assistere alle scene di giubilio per un qualcosa che nessuno stava comprendendo in fondo o l’incrocio fra tante esperienze, non ultimo quello fra uno dei padri della musica contemporanea ed i Canterini Romagnoli. Cage però era questo, era il suo sorriso che contagiava, era uno straordinario alchimista che non si chiude nella torre, ma va a cercare gli altri, TUTTI gli altri. In quegli anni a Milano venne contestato perché “amerikano”, casomai da quelli che trent’anni dopo si trovano in piazza per inneggiare alla guerra degli Usa contro le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam (bello il romanzone della vostra Fallaci vero?). Nel “treno” è chiaro che c’è dell’utopia, quella scolorita dalla malinconia degli anni trascorsi, ma c’è anche un’idea forte per un sogno che ti potesse far uscire dalla violenza che dominava il periodo (eravamo a due mesi dall’assassinio di Moro…). Non è andata così e si è piombati in una lunga epoca di “usa & getta”, ma quello che è stato fatto resta. Cage il silenzio perduto l’ha ritrovato da qualche anno e noi chissà quanto resteremo qua in mezzo all’isteria.
dal Cacofonico nr. 56 - 09/08

TRICKY “Knowle West boy” - Domino

Oggi è chiaro che Tricky non è un genio, ma anni fa non la si pensava così. Certo è comunque un bel manipolatore di sensazioni. Questo disco secondo molti lo riporterebbe ai fasti di un tempo, ma a noi non sembra. Delle primissime cose manca la tenebrosa ossessione che sosteneva tutti i brani, qui pare più rilassato anche se certo non sedato dalla pochezza che troviamo nella musica di tutti i giorni. Resta l’istinto dell’esploratore che però questa volta non l’ha portato in luoghi insoliti, ma piuttosto in località turistiche alla moda. Si parte con uno spleen blues e via che si va di reggae, di pop intelligente rivisitando la meravigliosissima (non si dice lo so, ma per lei questo ed altro) Minogue, poi hip-hop e soul. Siamo sempre ad alti livelli, anche se a volte la sensazione da Musicisti “Sans Frontiers” alla Moby è un po’ fastidiosa. L’asso viene calato a metà del disco con la magnetica “Past mistake” (un titolo che è tutto un programma) dove l’atmosfera si fa torrida e cangiante e Tricky mostra di essere il peso massimo di cui molti parlano. Se voleva riaffermare una qualche forma di supremazia all’interno del bristol-sound, c’è quasi riuscito, ma se voleva sconvolgerci non ci ha certo alzato la frequenza del battito cardiaco, ma in un mondo come questo è sempre più difficile.
(dal Cacofonico nr. 55 - 08/08)

Chi dice donna dice....

…. Summer! Donna Summer??? Già proprio lei che sulla sessantina (ragazzi per alcuni è l’età di vostra nonna…) si presenta con un nuovo disco intitolato “Crayons” (Matite? ‘zzo di titolo è?) affatto spregevole, a differenza ad esempio dell’ultrapompata bufala di Madonna “Hard Candy” che divorzia, ma purtroppo non abdica e minaccia pure di mettersi a fare la regista. Restando al cinema che dire della prova della bella (un po’ secchina per i miei gusti…) Scarlett Johansson? “Anywhere I lay my head” è come lei: charmante ma esile, etereo in eccesso, con una serie di effetti eco che allontanano anziché coinvolgere, nonostante i brani portino la prestigiosa firma di Tom Waits. Certo un ascolto piacevole ma… ma con Joan As Police Woman andiamo molto meglio. “To survive” ci fa capire che non siamo al cospetto di una meteora, ma di un’artista che smessi i più nervosi cenni harvejani dell’esordio è passata ad un tono intimo, anche in seguito a dolorose esperienze personali, come testimoniano le comparsate di Rufus Wainwright e David Sylvian. …e passando da un Wainwright all’altra eccoci a Martha che con “I know you’re married but I’ve got feelings too” ci regala un disco cristallino di folk non bucolico (nonostante la barrettiana “See Emily play”) e moderno, dotato di molto stile e l’ospitalità data a Donald Fagen non è certo casuale. A proposito di stile, non mancate assolutamente il secondo disco di Shara Worden alias My Brightest Diamond “A thousand shark’s teeth” uno splendido disco ricco di gemme preziose, riflessivo e introspettivo, ma affatto lezioso e con una voce stupenda. Se parliamo di voce non possiamo che terminare con lei: Diamanda. “Guilty Guilty Guilty” è l’ultimo lavoro, chi parla di inaridimento della vena creativa è sulla strada sbagliata. Certo non siamo ai livelli dei primi dischi, ormai la sorpresa è superata ma il brivido che si prova ad ascoltarla resta unico.
(dal Cacofonico nr. 54 - 07/08)

AFTERHOURS "I milanesi ammazzano il sabato" - Universal /// THE LAST SHADOW PUPPETS “The age of the understatement” - Domino

Perfetto. Tutti parlano di riciclaggio e qui abbiamo due esempi di come si possano riciclare idee musicali del passato (solito discorso di sempre: qualcosa di nuovo no, vero?). La questione è molto semplice: o lo si fa bene, o lo si fa male e fra questi due soggetti chi avrà operato nel modo migliore? Non vi svelo il finale del mio giudizio, ma per aiutarvi vi pongo una domanda: se i milanesi ammazzano il sabato, chi ammazzerà gli Afterhours? Io verso il rock italiano però sono recidivo, non ci ho mai creduto, anche se i casi di eccellenza li ho segnalati. Sarò in errore, ma in Agnelli non ho mai intravisto alcun talento speciale e questo disco non mi fa di certo cambiare idea. Di sicuro i brani che chiudono sono i migliori, forse proprio perché viene abbandonata quella stantia idea di ruachenroll con il fuzz che apre il lavoro, in favore di un’ispirazione del tutto autoctona (più qualche citazione gratuita dei Pixies). Di tutt’altro livello il lavoro dei TLSP che macinano pop psichedelico, irrobustito da ritmiche incalzanti e cori irresistibili, seppure anch’esso un disco fuori dal tempo dove è forte l’impronta degli ultimi Arctic Monkeys, ma se fosse uscito trent’anni fa avrebbe avuto un suo posto nella storia, non certo ora. Il livello compositivo è mirabile ed anche se resta, come sempre, la fastidiosa sensazione del giovane rockettaro strafatto che cerca di fare lo stiloso, alcuni brani sono veramente belli. Agli europei gli inglesi non ci saranno, ma qui non c’è storia….
(dal Cacofonico nr. 53 - 06/08)

PORTISHEAD "Third" - Universal

Va bene ponderare bene le cose, pesare le emozioni, ma undici anni dall’ultimo disco sono più consoni a geni sregolati come Glenn Gould che a formazioni contemporanee che svaniscono all’indomani di un successino in rotation su MTV. Qui ci sta bene la stupidaggine: “ i tempi cambiano”. E’ vero però, perché io che non amavo l’abbiocco-sound del trip-hop là nella metà degli anni novanta, oggi mi scopro interessato a questo terzo lavoro dei Portishead. Ai tempi del precedente lavoro, internet era agli inizi, c’era ottimismo sui mercati (compreso quello musicale), l’undici settembre era semplicemente il giorno prima del dodici e non mi ricordo chi governasse in Italia, ma tanto è la stessa cosa… I Portishead dei cambiamenti se ne fottono, almeno per quello che riguarda il suono “del momento”, ma aggiornano una formula, affatto scontata, con massicce dosi di rumore che se proprio non si può definire noise, si può ascrivere di sicuro alle sonorità disturbanti. Il Bristol-sound come tante altre cose in questi anni si è frammentato, polverizzato per poi diventare altro e Beth Gibbons e compagni lavorano per disorientare l’ascoltatore, che non trova più un baricentro. Ecco, se vogliamo riconoscere un lampo di modernità in “Third” è proprio questo: la vita (e l’arte) non come granitica certezza, ma un continuo volteggiare nell’aria malsana di questi tempi, senza alcun approdo sicuro. Da questo derivano le ritmiche sfasate, i brani interrotti, l’elettronica urticante e la vocalità melodrammatica dei Portishead di oggi; quelli di domani chissà quando li ascolteremo.
(dal Cacofonico nr. 52 - 05/08)

HAVE A NICE LIFE "Deathconsciousness" - Enemielist

Un tempo si parlava di musica leggera per indicare una musica amica che ti tenesse compagnia in ogni momento della giornata. Lungi dall’essere considerato un giudizio, quel “leggera” solo in Italia è diventato un marchio d’infamia, sebbene il blasone dei suoi creatori spesso fosse altissimo. Truffaut, esagerando come sempre, diceva che le canzonette erano l’unica musica veramente importante, ma lo spartito delle hit di allora non era certo l’encefalogramma piatto di quelle di oggi. Per togliersi di dosso l’odore stantio ed ammuffito della musica che va per la maggiore in radio e tv, ecco un bel bagno di “concettualità”, un prezioso carico di musica “pesante”. Qui però il peso specifico non sta ad indicare nulla di infausto o violento o noioso, ma proprio una materia da valutare con calma e solo in determinati momenti. Un pasto da gustare non velocemente in piedi, ma in certe ore particolari. Infatti per questo strano duo del Connecticut sono state usate parole roboanti, quali “kolossal gothic”, ma non bisogna farsi spaventare. Certo i nostri per mettere a punto questo lavoro (che fra l’altro è distribuito solo per e-mail ed è accompagnato da un libretto di 80 pagine…) hanno impiegato cinque anni e lo definiscono con una parola che qualche anno fa sarebbe costata loro la vita: concept-album. Questi ottantacinque minuti di musica però sono una delle cose più affascinanti ascoltate negli ultimi tempi. Certo non c’è modo di farsi due risate, ma in molti hanno scomodato nomi importanti per inquadrarli: Cure, My Bloody Valentine fino ad una delle creature più affascinanti della 4AD: i Cindytalk. Da parte mia ci aggiungo i God Machine e questo la dice lunga sul “mood” del duo, ma anche su quali gemme si possano trovare soprattutto nella prima parte del disco che aumenta di valore ad ogni ascolto.
(da Cacofonico nr. 51 - 04/08)

A VOLTE (SEMPRE PIU' SPESSO) RITORNANO

I pochi amici che ho cercano di convincermi sempre ad occuparmi di novità musicali, ma io non posso farci nulla, visto che la domanda è la stessa della politica: DOV’E’ LA NOVITA’? Se qualche anno fa vi avessero proposto la reunion degli Eagles, avreste reagito come alle dichiarazioni di innocenza della moglie di Mastella: ribaltandovi dalle risate. Oggi invece si rivaluta tutto, anche i Toto, ma il motivo è la scarsa passione che genera il presente. Ecco allora che un “Greatest Hits” del buon Morrissey, raccogliendo brani dagli anni ottanta ad oggi mette in riga tutti i gruppettini britannici degli ultimi cinque anni. E’ uscito anche “The golden age” (titolo per caso ironico?) degli American Music Club, un lavoro che nel secolo scorso avremmo potuto definire minore, ma che oggi svetta per brillantezza ed equilibrio delle composizioni; un disco capace di farvi una compagnia che nemmeno il più affettuoso dei retriever riuscirebbe a darvi. Dal passato, sempre con affetto, arriva pure Joe Jackson che riabbraccia il clima del “notte e dì” in “Rain” e senza infamia e con qualche lode, compresa quella dello stile, cosa non da poco e vi fornisce un prodotto meritevole di attenzione. Anche il compitino di Bob Mould (“District line”), sì proprio lui, è in grado di stupirvi per gradevolezza con canzoni in perfetta linea con il suo stile, fatto di ritmica semplice e chitarre sature senza eccessi. Certo non la tempesta elettrica del terzetto di Minneapolis che ha segnato indelebilmente la storia. …ed a proposito di storia: sono tornati i Bauhaus! Dico: non i Mission od i Nomadi (che purtroppo non se ne sono mai andati…) ma quelli veri… e ti vanno pure a tirare fuori un disco che sembra suonato da un rockband tribalista con frequenti squarci elettrici come ai tempi migliori, guidati dalla solita voce magnetica, una sorpresa. Sì, questa sì. Votate Murphy per un rock migliore, altrimenti fate come me: restate a casa. Insieme ai ritorni celebriamo chi se ne va visto l’addio del Quartetto Alban Berg.
(da Cacofonico nr. 50 - 03/08)

ENRICO RAVA & STEFANO BOLLANI "The third man" - ECM

Con l’avvento del “fazismo”, l’affermarsi cioè del pensiero debolissimo di quel presentatore televisivo che appoggia tutto quello che è carino, corretto e genuino, l’incolpevole Bollani risultava ai più il vero genio di questo duo. Lungi da noi sminuirne il magnifico tocco pianistico, ma si rende contemporaneamente necessario mettere sotto le luci dei riflettori Rava, un artista che, nonostante le medaglie conquistate sul campo, i più lo confondono con un onesto sergente. Inutile dirlo: ascoltare questo disco è terribilmente figo, ma anche indiscutibilmente (è un’orgia di avverbi questo articolo…) emozionante. I due sebbene siano diversi per età e formazione creano un’alchimia speciale grazie ad un affiatamento naturale (ma con Rava è facile…) e ci regalano un disco che fa della spontaneità la sua caratteristica principale. C’è un mondo intero racchiuso nelle note di questo “terzo uomo”, non minaccioso ed oscuro come il film di Reed con Orson Welles, un treno notturno di note che parte da locali fumosi ed arriva fino a noi, proprio ora che il salutismo ha ucciso l’ambiente del club, ma lascia intatto quello gonfio di estrogeni delle palestre chic e nonostante questa nazione sia il regno del cattivo gusto, Rava e Bollani si inseriscono con il loro magico mondo demodè ed in biancoenero alla ricerca di spiriti liberi e raffinati. Seguirli è un dovere oltre che un piacere.
(da Cacofonico nr. 49 - 02/08)

CHARALAMBIDES "Likeness" - Kranky

Esiste un genere inesistente? Un suono inaudito, un qualcosa che non sia immediatamente collocabile in una casella, in uno scaffale dove prenda polvere dopo due giorni? Chiaramente no, non esiste, ma da qualche tempo, dalla colata lavica della banalità che ha invaso i nostri insediamenti sono partiti alcuni rivoli di anticonformismo che intrecciandosi fra loro han dato risultati se non esaltanti, almeno piacevoli. Questi Charalambides (più facile imparare tutti i nomi della costituente del PD..) ad esempio si possono definire gli anti White Stripes per eccelenza; sono un duo, due coniugi (veri) provenienti dal Texas che anziché dare in pasto al pubblico finto r’n’r sanguigno quanto il succo di frutta al ribes, si sono inseriti negli interstizi di una musica che non ha bandiera e una serie di punti di riferimento piuttosto affascinanti quanto sfuggenti. C’è una voce che evoca le migliori signore della 4AD, chitarre distorte e giri armonici ripetitivi che sanno di velluto sotterraneo e mantra indiani attraversati da lampi elettronici. Facile parlare di globalismo musicale, ma qui non abbiamo a che fare con suggestioni speziate che infestano anche le hit da classifica (del resto ormai anche vostra nonna, a differenza di un tempo, ha contatti quotidiani con musiche non autoctone) siamo bensì di fronte ad un progetto teso a destabilizzare la melodia normalmente intesa. Un progetto da seguire assolutamente.
(da Cacofonico nr.49 - 01/08)